Il COVID 19 a Roma, riflessioni di uno specialista in medicina generale in una notte di primavera
- Stefano Sessa
- 9 giu 2020
- Tempo di lettura: 5 min
Aggiornamento: 3 lug 2020
Con l’arrivo dell’estate anche noi medici di base siamo tornati a vedere, ogni tanto, qualche sprazzo di luce nella nostra pratica medica di tutti i giorni. L’onda della funesta piaga d’oriente che ha travolto l’Italia e poi tutto il mondo non si è ancora dissolta e staziona minacciosa, ai confini del nostro orizzonte, mentre i suoi piccoli e micidiali colpi di coda continuano a generare grandi tragedie – lo è ogni singola morte– che tuttavia rimangono confinate sempre più in una dimensione privata, perché il dibattito pubblico celebra la netta regressione dei numeri dell’apocalisse in Europa ed è tutto concentrato su una ripartenza agognata per quanto incerta.
Il bollettino di oggi certifica 79 morti per Coronavirus in Italia, non sono più numeri che destano preoccupazione tra coloro le cui opinioni sono riportate nei media; per me sono 79 addensamenti d’ombra in questa giornata di sole perché negli ultimi mesi ho seguito da vicino tanti pazienti e ho dovuto anche io assorbire, almeno in parte, tutto il dramma emotivo che questo agente patogeno subdolo e multiforme scatena nelle sue vittime e poi, quando si espande come una invisibile marea montante, su tutte le persone intorno.
Non è una novità, per noi medici, farci carico, almeno in parte, del dramma emotivo che ogni malattia, piccola o grande che sia, genera nei nostri pazienti. Direi anzi che è tutt’uno con la scelta di fare il medico. Ma il problema che abbiamo dovuto affrontare per la prima volta in tanti anni di pratica medica è che si è trattato di una malattia nuova e, quindi, sconosciuta; sì, qualche strano malessere, qualche febbre d’origine sconosciuta, come scrivono i manuali, l’abbiamo incontrata ogni tanto, ma mai nulla di lontanamente paragonabile per malvagità e dimensioni del contagio. Anche quando qui in Italia, noi medici di base ci trovammo a fare i conti con i pazienti malati di AIDS, il loro arrivo era stato largamente preannunciato grazie alle campagne di sensibilizzazione portati avanti negli Stati Uniti e purtroppo per tanti anni è stato chiaro a tutti, pazienti e medici, che di cure, una volta contratta la malattia, non ce n’erano.
Con il Coronavirus abbiamo dovuto rassicurare pur non potendo avere certezze, almeno quelle certezze che la scienza esprime in termini di approssimazione statistica quando una malattia è stata studiata per tanti anni e tu hai avuto modo di confrontare la teoria con la pratica clinica e quindi sai bene dove si nascondono le insidie. Tutto era nuovo e non c’era nessuno a cui chiedere. Le indicazioni dell’autorità costituita spesso contraddittorie e confuse. Nel mio piccolo sono riuscita a gestire, a costo di notti insonni, tutti i pazienti, perché da una parte ho avuto una vantaggio che i miei colleghi del nord non hanno avuto: informazioni, per quanto incomplete, frammentarie, contraddittorie, ho avuto qualcosa su cui ragionare. Loro no, sono stati travolti per primi e senza preavviso da un contagio dalle dimensioni bibliche, che in apparenza si è concretizzato in un batter di ciglia. Io non penso che sia così, e un numero crescente di studi dimostra che probabilmente il virus era tra noi già nell’autunno del 2019 ben nascosto agli occhi di chi non ammetterebbe mai di notare fenomeni del genere se non quando ne fosse completamente travolto. L’ottimismo ad oltranza è nella natura umana, ma le autorità sono spesso ben più ottimiste del più ottimista degli individui. Il problema è che questo ottimismo ad oltranza genera problemi più grandi, perché in medicina, come per tutto nella vita, il problema prima lo affronti e meglio è.
Dal canto mio l’ho capito senza perdere troppo tempo leggendo montagne di articoli prodotti all’impronta soprattutto sulla stampa anglosassone, parlando con i colleghi e osservando da vicino i pazienti: al contrario di quanto andavano ripetendo le autorità, sono intervenuta tempestivamente con i malati quando, oltre a sintomi che, a mio parere, riconducevano al coronavirus, vie erano parametri vitali e/o importanti anche leggermente sfasati. In altre parole, anche una febbre a 37,5 o poco più per due o tre giorni poteva denotare uno stato grave della malattia se accompagnata, per esempio, da una leggera dispnea.
E’ così, per esempio, che è stata scoperta una polmonite interstiziale bilaterale appena iniziata in un mio paziente dopo soli due giorni di febbre e una frequenza respiratoria di 32 respiri al minuto, un valore di poco oltre la norma. Non è stato facile farlo ricoverare in ospedale perché in quel momento si sconsigliavano i ricoveri dei pazienti con sintomatologia – teoricamente - lieve; durante il ricovero è stato curato con un mix di antivirali e un anticoagulante, che si sono rivelati molto efficaci nel far regredire la malattia. Se avessi seguito le linee guida ufficiali, sarebbe diventato meritevole di cure ospedaliere solo quando la polmonite fosse avanzata tanto da rendergli difficile ogni boccata d’aria. Dal mio punto di vista, l’aver individuato la gravità della patologia così presto ha consentito non solo di curarlo nel miglior modo possibile, ma anche di velocizzare i tempi – e quindi i costi – della degenza ospedaliera. Lo confesso: da febbraio ho monitorato almeno due volte al giorno tutti i pazienti che a mio giudizio avevano sintomi compatibili con il COVID19 – non solo febbre e tosse o comunque riguardanti le vie respiratorie, ma spesso anche gastrointestinali – mentre cercavo in contemporanea di fargli fare un tampone con tempi più o meno rapidi a seconda del periodo; mai però ne ho aspettato gli esiti prima di affrontare il male. Il virus ha frequentato ben poco Roma rispetto a altre zone d’Italia, e quindi, pur rimettendoci il sonno, sono riuscita ad accompagnare tutti i miei pazienti ad una guarigione, anche se spesso con tempi molto lunghi (fino a tre mesi). Se il numero dei malati qui a Roma fosse stato più alto, come in alcune province del nord, non avrei ovviamente potuto farlo.
L’unico vantaggio, per ora, è che si tratta di una malattia che non è più del tutto nuova; davanti ad un nuovo paziente – ognuno è un caso a sé- potrò riandare con la memoria al caso più simile che ho affrontato con successo in questa prima tornata e avere un punto di partenza per decidere come curarlo al meglio. Un rimedio universale, che sia un vaccino o un medicinale ad hoc, per ora, non penso arrivi presto. La ricerca medica ha avuto più insuccessi che successi nel trovare vaccini per gravi malattie virali (non c’è vaccino per l’AIDS, per Ebola, per la SARS ecc.), se escludiamo i virus stagionali influenzali. Sono però convinta che il COVID19, se dovesse ripresentarsi con una nuova onda d’urto, possa essere gestito molto meglio, abbassandone di molto le letalità e gli effetti gravi, se ci saremo adeguatamente organizzati.
In questo momento la mia grande preoccupazione è per l’autunno. Sarà un momento cruciale: già lo è normalmente per le influenze stagionali, non oso immaginare cosa possa diventare una influenza stagionale che si presenti in completa promiscuità con il COVID19. Davanti a un malato come si farà a capire in tempi brevi – necessari per curarlo efficacemente - di quale agente patogeno si tratta? Per non dire dei casi in cui saranno presenti entrambi. Deciderlo sarà cruciale, e questa volta ci servirà un supporto strutturato e veloce da parte delle autorità sanitarie. Di scuse non ce ne saranno più, nessuno potrà dire che la piaga era imprevedibile.
CLAUDIA BULLETTA - STEFANO SESSA




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